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Di fronte al lento ma costante aumento dei casi di vaiolo delle scimmie su tutto il territorio nazionale, gli infettivologi della Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS e della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica fanno il punto della situazione. Parola d’ordine è: “Don’t panic” ma tanta informazione “Doc”
Il primo caso di vaiolo delle scimmie (monkeypox) in Italia è stato segnalato il 20 maggio scorso. Da allora il numero dei contagi è andato crescendo stabilmente, tenuto sotto stretto controllo dal sistema di sorveglianza istituito dal Ministero della Salute. Oggi siamo a quota 850 casi a livello nazionale (in Europa i casi sono circa 20 mila). La maggior incidenza si registra in Lombardia, Lazio, Emilia Romagna e Veneto. L’età mediana dei contagiati è di 37 anni e al momento quasi tutti sono di sesso maschile.
«Il monkeypox – spiega la dottoressa Simona Di Giambenedetto Ricercatore Malattie infettive, Università Cattolica del Sacro Cuore, UOC di Malattie infettive, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – è un virus a DNA, della famiglia delle Poxviridae. Molto simile a quello del vaiolo ‘classico’ che però, come accade per tante malattie virali (vedi Covid e HIV), ha fatto il cosiddetto ‘salto di specie’, passando nella scimmia. E non è neppure la prima volta. In passato, infatti, questo era un virus dei bovini, che si trasmetteva all’uomo attraverso il contatto con l’animale infetto».
Fino agli anni ’70 la vaccinazione contro il vaiolo era obbligatoria e questo ha aiutato a debellare la malattia. «Anche i vaccini contro il monkeypox che vengono offerti oggi alle categorie a rischio – spiega la dottoressa Di Giambenedetto – sono di fatto dei vaccini contro il vaiolo anche se sono allo studio vaccini specifici contro il monkeypox. Danno una copertura dell’85-90% contro questa malattia; chi è stato già vaccinato contro il vaiolo in passato ha bisogno di una sola dose. E comunque, chi da ragazzo ha ricevuto la vaccinazione, anche in caso di infezione da monkeypox, presenta dei quadri ‘blandi’ che vanno a guarigione nell’arco di pochi giorni, senza bisogno di terapia». La vaccinazione anti-vaiolosa viene offerta gratuitamente, se si rientra nelle categorie a rischio, rivolgendosi ai servizi di malattie infettive, come quello del Policlinico Gemelli, per la prenotazione. La vaccinazione viene poi effettuata in maniera centralizzata presso il centro vaccinale dell’INMI ‘L. Spallanzani’.
Febbricola, faringodinia e ingrossamento dei linfonodi del collo (laterocervicali) possono precedere la comparsa delle lesioni tipiche, che hanno l’aspetto delle vescicole della varicella (che poi nel corso dei giorni si trasformano in crosticine), che possono comparire su tutto il corpo, anche a livello dell’apparato genitale. «Di fronte ad un quadro del genere – afferma la dottoressa Di Giambenedetto – il consiglio è di recarsi presso una struttura sanitaria per fare degli esami specifici, rappresentati dal tampone delle vescicole e dal tampone faringeo per ricercare il virus con un test specifico (PCR). Un esame rapido e la risposta arriva in giornata. Ma intanto è importante isolare il paziente presso il proprio domicilio, consigliandogli di non avere contatti con altre persone, perché il contagio è possibile anche per contatto. E’ consigliabile rimanere isolati almeno fino alla caduta delle crosticine (che avviene 10-14 giorni dall’inizio dei sintomi), mentre per i rapporti sessuali è necessario attendere almeno altre dodici settimane, dopo la caduta delle croste. Al momento la categoria a maggior rischio è rappresentata dai soggetti omosessuali con rapporti promiscui».
«Per il trattamento, nel caso di soggetti con lesioni importanti e con scarsa risposta immunitaria – spiega il dottor Damiano Farinacci, dirigente medico dell’UOC di Malattie infettive, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCSS – si ricorre al vecchio cidofovir. Si tratta di un farmaco che utilizzavamo per le infezioni virali correlate all’AIDS e a farmaci di nuova generazione, come il tecovirimat, somministrato in compresse per 14 giorni e molto efficace sulla malattia». È da sottolineare l’importanza dell’approccio ai centri di malattie infettive perché se le lesioni sono molto gravi, è fondamentale iniziare tempestivamente la terapia per evitare di andare incontro a lesioni cicatriziali invalidanti nel lungo termine, che rappresentano la maggior problematica. Nel mondo sono stati segnalati pochi casi ad esito fatale e questo soprattutto in Africa. «I casi mortali – spiega la dottoressa Di Giambenedetto – sono in genere quelli che si complicano con un’encefalite, complicanza che si verifica di solito nei pazienti dal sistema immunitario seriamente compromesso, come quelli con HIV/AIDS o con malattie ematologiche. Laddove sussistano altre comorbilità insomma, il vaiolo può diventare una malattia mortale».
L’emergenza di un ‘nuovo’ virus può avere conseguenze a largo raggio, andando ad impattare anche su alcuni trattamenti, come il trapianto di microbiota intestinale. Un importante contributo per minimizzare i rischi di contagio da vaiolo delle scimmie, in caso di trapianto di microbiota, viene da Gianluca Ianiro, capofila di un panel di esperti europei che in questi giorni pubblica un aggiornamento delle raccomandazioni in proposito su Lancet Gastroenterology & Hepatology.
«Il trapianto di microbiota fecale (FMT) – ricorda il dottor Gianluca Ianiro, ricercatore in Malattie dell’Apparato Digerente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma, e dirigente medico della UOC di Gastroenterologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – è un trattamento validato per le recidive di infezione da Clostridioides difficile, ma anche per prevenire le complicanze correlate alle infezioni da questo batterio. Nel tempo sono state intraprese diverse azioni volte a garantire e a espandere la disponibilità di FMT e aumentarne la sicurezza, come ad esempio le cosiddette ‘banche delle feci’. La necessità di allestire queste banche è risultata evidente nel corso della pandemia di Covid-19, quando, per il rischio di trasmissione del SARS-CoV-2 attraverso le feci, i trapianti di microbiota sono stati bloccati in molti Paesi. All’inizio di settembre casi di infezione da virus del vaiolo delle scimmie venivano segnalate in oltre 100 Paesi. Di fronte a questa nuova minaccia, e all’indomani del safety alert emanato dall’FDA, la comunità scientifica ha dunque ritenuto opportuno aggiornare le linee guida relative al trapianto fecale, in materia di selezione dei donatori, inserendo nel protocollo di screening una serie di domande atte a valutare il rischio eventuale di infezione da vaiolo delle scimmie nei potenziali donatori». «Allo stato attuale – aggiunge il professor Giovanni Cammarota, Associato di Gastroenterologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma e Direttore della UOC di Gastroenterologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – l’accuratezza diagnostica dell’analisi molecolare su feci per rilevare il DNA del virus del vaiolo delle scimmie è sconosciuta. Tuttavia, anche sulla base delle attuali conoscenze sulla trasmissione del virus, l’aggiunta di test di laboratorio non aumenterebbe i livelli già molto elevati di sicurezza del trapianto di microbiota e al momento quindi non è clinicamente giustificata».
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