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Il perfezionismo e la tendenza alla ricerca della perfezione: pregio o difetto? Ecco i pro e i contro
Qualche anno fa, durante un seminario, mi capitò di sperimentare il Kintsugi, una forma d’arte giapponese che, grazie all’uso di colla o lacca a base di oro o argento, riunisce i pezzi di un oggetto in ceramica rotto. Per praticare il Kintsugi avevo portato da casa i tre frammenti di una ciotola appartenente al servizio di piatti a cui mia nonna teneva tanto e che destinare all’immondizia mi era sempre parso un affronto ai bei ricordi che evocava.
Portai avanti il lavoro con grande attenzione e con non poca difficoltà riuscii ad assemblare le tre parti di ceramica color avorio, che erano tornate a formare una bellissima ciotola attraversata da sottili nervature dorate; i tre frammenti formavano adesso un nuovo oggetto, completamente diverso dall’originale (di ceramica liscia, lucida e compatta); la sua interezza si reggeva su cicatrici dall’ andamento irregolare e frastagliato, che richiamava alla mente un solo termine: imperfezione.
Dunque avevo creato una cosa imperfetta che metteva in mostra magnifiche ramificazioni scintillanti che non solo ne consentivano l’integrità, ma ne affermavano l’unicità.
Guardando con orgoglio la mia creazione, pensai a quell’atteggiamento mentale assai diffuso nella società odierna per cui ciò che si realizza, per essere buono, deve avere le caratteristiche della perfezione; capita allora che, anziché lavorare mettendo semplicemente in campo le proprie capacità, ci si dia molto da fare per una riuscita ottimale e se il risultato non raggiunge gli standard elevati a cui si aspira si finisce per sentirsi persone mediocri, se non addirittura dei falliti.
Il perfezionismo è spesso visto come desiderabile o addirittura necessario al fine di raggiungere il successo; in realtà chi si prodiga per fare tutto ciò che fa in maniera impeccabile finisce per ritrovarsi impigliato in una rete come un pesce che si dibatte ottenendo solo di rimanere ancor più incastrato nelle maglie di un desiderio troppo elevato, che toglie respiro al gusto di fare l’esperienza; la persona è protesa unicamente verso l’obiettivo finale, che naturalmente non deve presentare alcuna “crepa”.
Quanto alla mia ciotola, se avessi pensato che per ottenere un prodotto a regola d’arte giapponese avrei dovuto possedere abilità nell’utilizzo dei pennelli e delle colle, precisione estrema nel far combaciare fra loro i frammenti rotti e mano ferma per assemblarli correttamente, probabilmente avrei rinunciato a fare esperienza del Kintsugi.
Alcuni pensieri e convinzioni possono essere associate alla smania di raggiungere la perfezione:
I perfezionisti spesso identificano gli errori con il fallimento, rischiando così di orientare la propria vita cercando un modo per evitare inesattezze e imprecisioni.
I perfezionisti spesso temono di non ottenere l’approvazione e la benevolenza da parte degli altri; cercare di essere perfetti è un modo per proteggersi dalle critiche, dal rifiuto e dalla disapprovazione.
I perfezionisti tendono ritenere che i propri sforzi siano infiniti ma sempre inadeguati rispetto agli obiettivi che si prefiggono; per contro percepiscono gli altri come capaci di raggiungere il successo con il minimo impegno e pochi errori.
Il perfezionismo si lega spesso ad un senso del dovere imperativo, che rende la vita un lungo elenco di “dovrei”; ogni azione viene guidata da regole rigide su come essere e comportarsi, che non consente di tenere in considerazione i propri reali desideri ed esigenze.
Coloro che tendono al perfezionismo pensano di essere inadeguati se i risultati che ottengono non sono perfetti; è probabile che questo atteggiamento mentale porti a rinunciare ad intraprendere qualsiasi tipo di esperienza, che si tratti di un compito riferito al lavoro o di un’attività ludica: meglio astenersi piuttosto che raggiungere un risultato mediocre!
Il pensiero critico dei perfezionisti alimenta spesso un circolo vizioso importante:
La perfezione non è di per sé un male, in effetti non c’è nulla di strano a voler eseguire per bene un qualsiasi compito; se però la si rende un “dogma” a cui riferirsi si rischia di farne l’unico traguardo possibile, il solo scopo a cui si deve tendere per sentirsi accettati, e accettabili. Quando l’unica cosa che conta è la destinazione finale, viene a mancare il piacere di gustarsi il viaggio, quel percorso di apprendimento e crescita che rende stimolante ogni avventura possiamo intraprendere nella vita, mettendo in gioco le nostre abilità e le nostre attitudini.
I comportamenti sono da seguire sono:
Suggerisco di intraprendere qualsiasi attività modificando i propri standard di successo, e anziché puntare ad ottenere dal proprio impegno al cento per cento, proporsi di arrivare, per esempio, solo al settanta per cento; una volta completata l’attività potremo osservare che il mondo non è crollato anche se non siamo stati perfetti, e che nulla di drammatico è accaduto.
Anziché puntare al risultato finale, proviamo a portare l’attenzione al percorso che facciamo svolgendo una determinata attività; potremo così valutare la buona riuscita del compito non in termini di ciò che si è realizzato, ma per tutto ciò che di piacevole abbiamo vissuto. Una partita a tennis è una buona esperienza anche se non si porta a casa la vittoria: c’è il gusto di tirare di dritto e di rovescio valutando quale colpo è nelle nostre corde, il sapore del confronto con l’avversario nel piacere del gioco, la possibilità di percepire le potenzialità del nostro corpo che si muove nello spazio.
Chi pretende da sé stesso la perfezione è facile preda di stati di ansia e depressione, che si manifestano ogni qualvolta ci si deve impegnare in un compito e che spesso portano le persone ad abbandonare l’attività prima di aver cominciato; in questo modo l’ansia si placa, ma il prezzo da pagare è rinunciare a fare l’esperienza, vivendo poi un inevitabile senso di frustrazione.
Suggerisco di fare i conti con la propria ansia anziché cercare di disfarsene: occorre essere consapevoli del proprio stato d’animo per capire quali aspettative impossibili stiamo riversando su noi stessi, e perché.
La crescita e l’apprendimento dell’essere umano passa attraverso l’errore, grazie al quale è possibile intraprendere strade diverse, conoscere i propri limiti e scoprire le proprie capacità, o accorgersi che le nostre necessità ci indicano di dirigerci altrove.
E’ importante, infine, stabilire obiettivi realistici e raggiungibili che siano in linea con le nostre aspirazioni, rinunciando ad essere continuamente in competizione con noi stessi per sentirci eccellenti lavoratori, o artisti, o sportivi, ricordando che la libertà di sbagliare è un diritto e un’opportunità nel percorso di vita.
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