Secondo uno studio il 59% delle persone controlla il cellulare oltre 200 volte al giorno. Lo psichiatra approva l’iniziativa dello Sconnessiday e ai giovani dice: «Positiva una pausa dalla connessione purché non sia vissuta come una violenza»
La nomofobia, la paura di rimanere sconnessi dallo smartphone, sta diventando sempre più una patologia con cui fare i conti. Controllare le email anche di notte, addormentarsi con il cellulare in mano, oppure precipitarsi a controllarlo appena svegli sono campanelli d’allarme da non sottovalutare. Secondo un’indagine di Deloitte del 2016 l’83% delle persone legge le email di lavoro durante la notte, il 37% controlla le notifiche sul cellulare nel bel mezzo della notte e al mattino il 57% controlla il telefonino entro 22 minuti dal risveglio. Durante il giorno il 92% utilizza il cellulare al lavoro e il 59% controlla il telefono oltre 200 volte al giorno. L’80% si addormenta col cellulare in mano. Anche per scongiurare il pericolo di cadere nella nomofobia, è nata l’iniziativa dello Sconnessiday, con tanto di sito web dedicato, che prevede una giornata nazionale della sconnessione, il 22 febbraio, e un’ora al giorno di pausa dalle tecnologie. Ne abbiamo parlato con David Martinelli, psichiatra del Centro Pediatrico Interdipartimentale Psicopatologia da Web presso la Fondazione “Policlinico Gemelli” di Roma.
Martinelli, quanto è diffusa la nomofobia e come se ne esce?
«È molto diffusa non solo in termini di fobia ma anche in termini di abitudini, quando non viene percepita come un problema. Ci sono vari gradi di dipendenza che vanno dall’uso normale, quotidiano, che non è patologico, a usi più patologici. Se ne esce rendendosi conto di quello che si sta perdendo nel mondo reale, rendendosi conto che l’errore sta nel contrapporre il mondo virtuale e il mondo reale: questi due mondi dovrebbero collaborare in quanto parte di una stessa realtà. Il mondo virtuale dovrebbe essere quello che ci consente di fruire del mondo reale in modo più agevole, non sostituirlo».
Che disturbi può provocare la nomofobia o l’eccesso di connessione?
«All’interno di un utilizzo normale, che va analizzato e gestito, ci sono poi una quota di persone, parlo in questo casi di ragazzi giovani, che trovano in questo mondo la possibilità di rinchiudersi, di ritirarsi, di non affrontare la realtà esterna che viene da loro vissuta in maniera troppo dolorosa, come se fosse un qualcosa di troppo pesante da affrontare, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto emotivo a cui questi ragazzi non sono stati educati. Per loro uscire fuori vuol dire sottoporsi ad emozioni troppo stressanti e allora la rete rappresenta una valida alternativa se non fosse per il fatto che non permette di uscire dal problema. Per quanto riguarda gli adulti si possono sviluppare dei fenomeni di dipendenza che però sono del tutto sovrapponibili alle altre dipendenze comportamentali come il gioco d’azzardo e lo shopping compulsivo, hanno maggiore affinità con questo tipo di patologie».
Si è svolto da poco lo Sconnessiday, un giorno in cui si invitano giovani e meno giovani a prendersi una pausa dalla tecnologia. Lei consiglia di staccare la connessione per alcune ore al giorno?
«Si, è assolutamente consigliabile purché non sia vissuto come una violenza, altrimenti si ottiene l’effetto opposto. È importante disconnettersi ma è importante anche chiedersi come si vuole riempire questo spazio vuoto che si crea. Sarebbe bello riempirlo con delle esperienze reali, che ci rendono felici, con delle esperienze che ci permettono di vedere cosa ci stiamo perdendo. Ricordo ad esempio un papà che mi disse che sua figlia giocava molto con un videogame di corse di automobili. Lui allora decise di mettersi vicino alla figlia per giocare con lei, capì come funzionava il videogame e il giorno dopo l’ha portata su una pista di go kart. Bisogna riempire questo vuoto con delle esperienze reali».
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