Sanità 21 Gennaio 2021 17:34

Covid-19, il ruolo delle Usca e le differenze tra regioni: ecco perché allo scoppio della seconda ondata non erano a regime

Previste da un decreto di marzo, le Unità speciali di continuità assistenziale a fine ottobre erano le grandi assenti della medicina territoriale. Bartoletti (Fimmg): «Decreto confuso, il loro numero andava adattato al quadro epidemiologico o si rischiava uno spreco di risorse». Patrizi (Smi): «Solo dopo il nostro ricorso al Tar alcune regioni si sono mosse»

Covid-19, il ruolo delle Usca e le differenze tra regioni: ecco perché allo scoppio della seconda ondata non erano a regime

La pandemia, tra i diversi danni che ha provocato, ha messo in evidenza ancora di più un’Italia a macchia di leopardo nella sanità. Se però le differenze tra regioni nell’erogazione dei servizi sanitari sono già intollerabili in tempi normali, ancor più lo sono in tempi di pandemia dove il ritardo nell’organizzazione sanitaria di un territorio, oltre a ledere il diritto alla salute dei cittadini, può rendere più complicata la lotta al virus e costare tante vite.

Nella lotta al Covid un esempio lampante è quello delle Usca, le Unità speciali di continuità assistenziali. Ad introdurle è stato l’articolo 8 del decreto legge 14 del 9 marzo 2020, poi assorbito dal decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020. Lo scopo di queste Unità, previste nel numero di una ogni 50mila abitanti, è quello di garantire la gestione domiciliare dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. Per l’attuazione dell’intervento sono stati stanziati 104 milioni di euro.

Avrebbero dovuto essere un ottimo strumento per consentire ai medici di medicina generale, ai pediatri di libera scelta e ai medici di continuità assistenziale (ex guardia medica) di garantire l’attività di assistenza territoriale ordinaria, indirizzando alle Usca, a seguito del controllo a distanza attraverso triage telefonico, i pazienti sospetti di essere affetti da Covid-19.

La realtà però è stata ben diversa da quella che il legislatore si era prefissato: fino a fine ottobre 2020 l’attivazione delle unità ha avuto un andamento inferiore alle attese e con forti differenze territoriali. «Vi ha inciso la volontarietà dell’adesione da parte dei medici di medicina generale e dei pediatri e le difficoltà di disporre di adeguate attrezzature sanitarie. Nonostante in alcune regioni le realizzazioni siano state forti, la media a livello nazionale era inferiore al 50%», ha sottolineato la Corte dei Conti in una memoria depositata nel corso dell’audizione presso le Commissioni Camera e Senato riunite del 24 novembre scorso.

Secondo un’indagine di Quotidiano Sanità, i numeri sono iniziati a migliorare solo con l’esplodere della seconda ondata di Covid-19 a novembre. Solo allora le regioni si sono mosse compatte e le Usca attivate erano pari a 1.312, più di una ogni 50mila abitanti. Ma con discrete differenze tra regioni che ne avevano attivate più dello standard previsto dal decreto e regioni meno virtuose. Abbiamo provato a ricostruire il perché di questa difformità con Pier Luigi Bartoletti, componente del Comitato Centrale FNOMCeO e Vice Segretario Fimmg, e Cristina Patrizi, Segretario dell’OMCeO Roma e Responsabile Area Convenzionata SMI Lazio.

Un decreto ‘emergenziale’ da adattare ai territori

Sono diversi i problemi che le regioni hanno dovuto affrontare nel costruire le Usca. Da un lato la difficoltà nel reperire medici e professionisti sanitari. Dall’altro la costruzione di un modello organizzativo di cui non c’è cenno nel decreto e che ha portato ogni regione a fare a modo suo.

«Il decreto – spiega Bartoletti – è nato nel periodo di picco pandemico a marzo dove però il virus era circoscritto in alcune regioni del nord. È nato perché c’erano molti colleghi ammalati o defunti. Gli ospedali erano in tilt, la gente era curata a casa, molti medici spaventati, c’era estrema carenza di Dpi. Era razionale pensare, in quel contesto, che un provvedimento del genere potesse dare una bella mano. Ma al centro-sud quella situazione non c’era».

Alcune regioni, come il Lazio, si sono interrogate sull’opportunità di creare uno strumento che rispondesse alla situazione epidemiologica del momento evitando uno spreco di soldi.

«Il dato di una Usca ogni 50mila abitanti va calato sui territori. Possono essere tanti in un posto e pochi in un altro posto. Poi ognuno si è attrezzato come ha voluto e nel reclutamento le regioni sono state lasciate sole. Non c’era chiarezza neanche su cosa dovessero fare le Usca. Diagnosi, trattamento, terapia, assistenza: ci sono tante possibilità. È rimasto un decreto appeso al muro e poi, come sempre, ‘ognuno se la cavi come meglio crede’».

Nel Lazio le Uscar (è stata aggiunta la “R” di regionali) in un primo momento hanno soprattutto dato una mano sui grandi cluster nell’esecuzione dei tamponi: aeroporti, stazioni, drive in, Rsa. Sono composte da 700 medici e 700 infermieri. Ma il sistema delle visite a domicilio è rimasto sostanzialmente in carico ai medici di medicina generale e alle Asl. «Le Usca sono state pensate come un ausilio della medicina generale ma non come sostitutivi» ha chiarito Bartoletti che fa riferimento alla sentenza del Consiglio di Stato dello scorso 18 dicembre che ha ribaltato la pronuncia del Tar che vietava ai medici di famiglia di poter fare le visite domiciliari per Covid in quanto compito esclusivo delle Usca. «Il medico di base può andare a casa oppure può chiamare le Usca. Non ci può essere una logica sostitutiva» ribadisce il Vice Segretario vicario Fimmg.

Un problema anche di costi, secondo Bartoletti, perché il rischio di danno erariale e di essere chiamati a giustificare le spese dalla Corte dei Conti è dietro l’angolo: «Il concetto è professionale. Non si poteva mettere in piedi un sistema che costa una valanga di soldi senza che servisse. La dotazione di personale andava legata al contesto epidemiologico locale».

E poi c’è il problema dell’organizzazione: ogni regione ha predisposto un meccanismo di funzionamento e attivazione diverso per le Usca e differenze si sono manifestate anche tra Asl della stessa regione: «Non si può rispondere in maniera variegata a una pandemia del genere perché l’effetto è catastrofico. Il cittadino romano può attivare l’Usca in due modi: attraverso il 118 o attraverso il suo medico curante che deve chiamare il SISP che, avuta comunicazione dal medico curante, manda all’Uscar la richiesta di visita domiciliare. La verità però è che ci sono cento modi diversi di fare le cose sul territorio. Non è un indice di efficientamento ma di disorientamento. La Regione Lazio ha accentrato tutto allo Spallanzani e le Asl si sono messe in relazione con questo ente. Nonostante questa operazione ogni Asl ha continuato a fare come voleva. Nelle altre regioni dove non c’è una struttura specializzata di riferimento ma c’è il distretto, c’è la babele».

Il ricorso che ha ‘svegliato’ le Regioni

Diversa la visione di Cristina Patrizi: il suo sindacato, lo SMI, aveva presentato un ricorso, accolto dal Tar del Lazio, che lo scorso 16 novembre aveva ‘terremotato’ le cure domiciliari. La sentenza stabiliva che i medici di famiglia non devono visitare i pazienti Covid a domicilio: il compito spetta alle Usca. Nonostante poi la pronuncia contraria del Consiglio di Stato (arrivata però solo il 18 dicembre) le regioni si sono prontamente attivate per mandare a pieno regime lo strumento.

«Solo dopo questa sentenza – spiega Patrizi a Sanità Informazione – praticamente c’è stata l’attivazione del processo che si sarebbe dovuto svolgere a marzo. Abbiamo una documentazione inconfutabile. Nel Lazio a fine novembre le Asl hanno finalmente attivato quasi tutte il percorso, per cui i medici di famiglia potevano attivare le Uscar laziali. Ma la questione rimane sempre il grave problema per la medicina del territorio di doversi far carico di tutta una serie di processi informatici, di trasmissione di dati dei pazienti Covid tra SISP e centrali Covid distrettuali che sono adesso lo strumento con il quale si attivano le Uscar».

Le regioni del nord erano state le più virtuose: alcune si erano distinte per efficienza, come Toscana ed Emilia Romagna. Ma la maggior parte aveva attivato a singhiozzo le Usca.

«Basta lavorare in emergenza e basta precariato – sottolinea Patrizi –. Avevamo gli strumenti per aumentare il personale di cui avevano bisogno i dipartimenti di epidemiologia e prevenzione che sono quelli che si sono trovati completamente scoperti perché privi di personale e che sono stati implementati con avvisi continui a cui hanno partecipato generalmente i neolaureati. Le possibilità c’erano. C’è da ampliare tutta una rete di professionisti che attualmente sono nel SSN ma molti con incarichi a tempo determinato. I medici di continuità assistenziale che hanno incarichi a 24 ore hanno tutti, per contratto, la possibilità di fare quattro ore a settimana nei servizi distrettuali, nelle aziende. Se noi avessimo anche solo offerto volontariamente la possibilità di ampliare queste quattro ore avremmo trovato tanti medici. Tutti i medici che non sono a tempo pieno potevano essere coinvolti per lavorare nei dipartimenti. Le Usca dovevano essere messe a disposizione della medicina generale non per un privilegio ma perché è la medicina generale che gestisce le persone a domicilio», conclude la responsabile SMI Area convenzionata del Lazio.

 

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